Psicoanalisi e psicoterapia: Come scegliere?
“È possibile che lo psicoterapeutico sia tutto ciò che lo stato può recepire dalla psicoanalisi (...)”
Così perlomeno afferma Jacques-Alain Miller all'interno del suo intervento del 1991 rispetto all’introduzione della legge Ossicini in Italia.
Per chi non la conoscesse la legge Ossicini altro non è che la legge nº56 del 18 febbraio del 1989, grazie alla quale non viene soltanto istituito l'ordine degli psicologi ma inoltre all'interno di uno dei suoi articoli, più precisamente il terzo, viene definito legislativamente l'esercizio dell'attività psicoterapeutica.
Ma una volta data una definizione legislativa effettivamente quale differenza intercorre tra psicoterapia e psicoanalisi? E, soprattutto, quando si sceglie di affidarsi ad un tipo di percorso piuttosto che ad un altro?
Prima di poter affrontare queste due domande mi è necessario fare una piccola introduzione.
Fin da subito, all’interno del proprio intervento, Miller riporta come secondo lui la psicoanalisi sia comparabile alla figura mitologica di Giano bifronte. Così sarebbe in quanto essa intrinsecamente presenta una duplicità.
In altre parole, lo psicoanalista francese crede che psicoterapia e psicoanalisi siano in stretto rapporto tra di loro, ma proprio perché sono in così stretto rapporto è necessario comprendere la natura di questa relazione.
Miller viene ad affermare che quello che ci può essere in comune tra psicoterapia e psicanalisi è: “(...) che in molti casi si tratta di logoterapia, una terapia tramite il linguaggio e in alcuni, addirittura, di terapia del linguaggio.”.
Questo tipo di linguaggio di cui si parla non per forza deve essere quello verbale, ma ad esempio, lo stesso essere malati fisicamente molto spesso è visibile come una possibilità del corpo di dire qualcosa che non può esprimere all'interno del linguaggio verbale.
Potremmo quindi dire che tutti i disturbi che colpiscono lo psichismo rispondano a cause di tipo biologiche, neurologiche e chimiche ma possiamo veramente sempre dire così oppure esiste una causalità psichica che costituisce un altro ambito a parte?
In un certo senso questa domanda è la base su cui si fonda tutta la questione introdotta precedentemente.
Miller ci viene, in parte, in aiuto affermando che tutto quello che riguarda un intervento diretto sul corpo, che sia chimico o chirurgico, esce ovviamente dal campo delle psicoterapie.
Detto ciò, però una volta che abbiamo escluso questi tipi di procedimenti vediamo come: “esistono un certo numero di interventi sulla realtà psichica che passano per la via del corpo e che pure entrano nel campo delle psicoterapie (...)”.
Inoltre, è proprio grazie a questo tipo di disturbi che possiamo individuare, per così dire, una formula generale delle psicoterapie, ovvero esse riguardano il dominio della parola dell’altro sulla definizione identitaria del soggetto paziente.
Per rendere più comprensivo questo punto molto importante voglio portarvi un esempio per il quale chiedo scusa preventivamente ai medici che spero non si offendano.
Prendiamo un paziente con una sintomatologia evidentemente depressiva; questa persona si presenta da uno psichiatra; racconta la sua sintomatologia (tono dell’umore deflesso, anedonia, mancanza di energia, ecc.); a questo punto il medico, proprio a partire dal racconto, formulerà una diagnosi e la presenterà al paziente, sostanzialmente, in una modalità del tipo: “Lei è depresso”.
Ora di fronte a questo tipo di posizione il paziente, naturalmente, potremmo dire tenderà a identificarsi alla diagnosi, ovvero una volta uscito dalla visita alla domanda del: “Cosa ti ha detto il dottore?” egli, molto probabilmente, non risponderà: “Mi ha trovato una depressione” quanto invece replicherà: “Mi ha detto che sono depresso.”. Ecco, dunque, che quel significato giunge ad essere definitorio dell’identità della persona che lo subisce.
Tale modalità, e spero lo potrà confermare chiunque ha mai avuto un’esperienza all’interno del mondo della psicoanalisi, non è la posizione tipica di uno psicoanalista.
Ed è proprio per questo motivo che la posizione della psicoanalisi assomiglia a quella della figura di Giano. Difatti, lo psicoanalista è colui che pur ritrovandosi potenzialmente in una posizione di potere di significato non mette mai in atto questo sua competenza. In poche parole, lo psicoanalista è tale solo se rifiuta di mettersi nella posizione di conoscenza lasciando così aperta: “(...) la porta alla dimensione propriamente analitica.”
E tale porta rimane aperta solo se si riesce a far comprendere al soggetto “Non so, ed è per questo che bisogna che tu parli.”.
Chiedo scusa di questa, per così dire, lunga introduzione ma era impossibile comprendere le riflessioni che riporterò più avanti senza aver affrontato precedentemente questo percorso.
Eccoci però arrivati dunque al punto, del ragionamento riportato da Jacques-Alain Miller, che ha prodotto alcune mie riflessioni che vorrei condividere con voi.
La prima riflessione riguarda il collegamento che tutta questa discussione ha con un mondo a me caro ovvero quello cinematografico.
Infatti, fin dall’inizio mi sono sorti due rimandi cinematografici: il primo riguardante “Ragazze interrotte” (1999) ed il secondo invece “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (1975).
Partiamo dell’elemento che unifica, si fa per dire, questi due film. Per chi non li conoscesse entrambe le pellicole raccontano l’esperienza, nel primo di Winona Ryder alias Susanna e nel secondo di Jack Nicholson alias Randolph, all’interno di un ospedale psichiatrico.
In entrambi i casi quello che viene narrato è dunque l’esperienza di un soggetto a stretto contatto con il mondo della salute mentale così come viene definita dalla legge o per meglio dire da un sistema sanitario.
Questo confronto fin da subito riporta come aspetto centrale del percorso di cura non tanto un riconoscimento e dunque una riconquista dell’aspetto desiderante del soggetto, quanto invece la possibilità di fornire un’identificazione diagnostica e le conseguenti terapie al fine di rendere nuovamente funzionali per la società i soggetti internati o, nel caso di un’impossibilità di questo meccanismo, di tenerli comunque lontani dalla società all’interno di un centro costruito appositamente.
Quello che questi film dimostrano è che un intervento strutturato solamente intorno a questa modalità non può condurre ad una effettiva cura, ma può avere soltanto come conseguenza due uniche forme di risposta.
La prima modalità di riposta, che definirei come lo strutturarsi di una menzogna dell’io, viene rappresentata perfettamente all’interno del film “Ragazze interrotte”. Vi riporto un frangente del film per farmi comprendere meglio.
Una ragazza, di quelle internate, riesce finalmente ad un certo punto ad essere dimessa, grazie al padre riesce a comprarsi un piccolo appartamento e perlomeno per una parte del film sembra che la sua vita si strutturi intorno ad una comoda quotidianità composta da semplici cose. Ad un certo punto però veniamo a scoprire che questa identità che le permette di funzionare come membro della società altro non è che un’identità fittizia accettata soltanto per poter sfuggire ad un internamento clinico insostenibile.
L’altra forma di risposta, che è in stretto rapporto con questa modalità appena affrontata e rappresentata difatti sia all’interno del film “Qualcuno volò sul nido del cuculo” sia in “Ragazze interrotte”, riguarda il suicidio.
In entrambe le narrazioni vediamo come nel momento del fallimento di questo intervento di “cura” l’unica soluzione che il soggetto sembra trovare è quella del suicidio.
Del resto, se la cura si basa sull’imporre il proprio significato promettendo che l’identificazione intorno a quel significato permetterà al soggetto di essere o di ritornare ad essere più felice, più sviluppato e più adattato alla società, nel momento in cui il paziente si renderà conto che tutto ciò non gli è possibile o gli è difficile sarà sicuramente più propenso a scegliere una forma estrema di annichilimento del proprio io.
Pur non citando alcun film lo stesso Miller affronta questa tematica della cura venendo ad affermare che appunto: “L’analista non può promettere né la felicità, né l’armonia, né lo sviluppo della personalità (...) Può all’occasione promettere di mettere in chiaro il desiderio del soggetto e di aiutare a decifrare ciò che insiste nell’esistenza di un soggetto.”
La seconda riflessione si aggira invece intorno alla domanda “Come non cadere, anche da psicologo, nella trappola, per così dire, dell’imposizione del mio significato sul paziente?”
In qualche modo, è nuovamente Miller stesso a rispondere a questo mio quesito. Difatti, nella parte finale del suo intervento egli viene ad affermare che lo psicoanalista proprio per evitare di cadere in questa posizione ha tre doveri.
Non è questo il contesto in cui vorrei affrontare la tematica del primo dovere, quanto invece mi concerne maggiormente soffermarmi su una rielaborazione del secondo e terzo dovere.
All'interno del secondo dovere viene riportata la discussione sul compito dello psicoanalista. Per Miller tale compito riguarda il rendere edotto il pubblico su ciò che lo psicoanalista non sa e su ciò che può promettere.
Per affrontare questo secondo punto lo psicoanalista francese afferma che: “L’analista non sa e cioè non presume.”.
Possiamo quindi notare come la posizione dell'analista sia simile, partendo da questa definizione, a quella dell'insegnante maieutico ovvero di colui che invece di posizionarsi come pieno di sapere si posiziona nel ruolo di colui che l'unica cosa che conosce è la sua mancanza.
Difatti, soltanto facendo così è possibile che il soggetto-paziente non si fermi su un’identificazione a lui imposta, ma che possa iniziare un percorso atto a strutturare una definizione di sé autonoma. Brevemente, quindi si potrebbe dire che la psicoanalisi sostituisce al “tu sei!” del mondo medico la domanda “chi sei tu?”.
Il terzo ed ultimo dovere che riporta Miller riguarda la responsabilità di proporzionare gli effetti analitici alla capacità del soggetto di sopportarli.
Quello su cui mi vorrei soffermare di questo dovere riguarda la frase: “(...) la vita non è per l’analista, al contrario del medico un valore supremo anche se questo non vuol dire che l’analista sia al servizio della pulsione di morte.”.
Dunque, riprendendo queste righe possiamo vedere come l’unica posizione accettabile da una struttura medica sia quella che presume che la vita sia un bene assoluto.
Tale posizione implica di presumere qualcosa ovvero di posizionarsi di fronte a coloro che ci chiedono aiuto sapendo già qualcosa ovvero sapendo, ad esempio, che l’unica soluzione di cura sia una cura oggettiva rivolta al sintomo.
Di fronte a questa posizione trovo però, soprattutto a partire anche dalla mia esperienza di tirocinio, una difficoltà.
Difatti, secondo tale tipo di presunzione, ad esempio, per un soggetto affetto da un disturbo anoressico l’unica guarigione passa dal far scomparire il sintomo specifico ritornando così a nutrirsi adeguatamente.
Personalmente però credo, che pur essendo parte della guarigione, un intervento basato solo sulla sintomatologia non può, e non è, l’unica soluzione di riabilitazione.
La capacità, dunque, di proporzionare gli effetti della propria cura riguarda anche il fatto della capacità della psicoanalisi, o di coloro che accettano questa posizione, di comprendere che il trattamento possa passare anche da un rimanere al di fuori da un funzionamento tipico societario.
Quello che voglio far notare è il fatto che, per quanto quei comportamenti siano dannosi al soggetto, e che quindi quel tipo di sintomatologia debba essere risolta, è anche vero che questa risoluzione può avvenire solo e soltanto se si riesce a comprendere quello che il sintomo vuole dire, ovvero solo se si comprende tale forma di linguaggio.
Essendo però tale linguaggio un “linguaggio dell'altro” non è possibile confrontarlo con dei pregiudizi o comunque ponendo un significato partendo soltanto dalla nostra posizione.
Volgendo alla conclusione del mio intervento vorrei riprende un ultimo passaggio dal testo che ci ha guidato in questo percorso.
In un breve frammento Miller dice: “Esiste un Freud psicoterapeuta (...) quando pensa di sapere che cosa ci vuole per una donna ed è stato il suo fallimento con Dora.”.
Volevo concludere con questa frase perché all’interno di essa mi sembra di poter vedere emergere i due punti centrali di questo mio scritto: il primo è che fondamentalmente nel luogo della cura clinica-medica non potrà mai entrare una posizione come quella psicoanalitica, in quanto in un luogo costruito fin dalla sua origine intorno alla certezza di possedere la conoscenza per la via della cura una posizione di non sapere non potrà mai essere accolta; il secondo riguarda invece la scoperta, si fa per dire, che non è tanto una definizione tecnica a priori che può permettere di comprendere appieno la differenza tra psicoterapeuta e psicoanalista quanto invece il modo con cui lo specialista si applica alla cura tramite la parola.
Riconoscere che non si riesce ad affrontare da soli un disagio che accompagna uno specifico momento della vita è un grande atto di responsabilità e di cura verso sé stessi e gli altri